1° PREMIO: numero 1144
Soggiorno weekend per 2 persone presso Resort La Francesca (Bonassola, SP) – http://www.villaggilafrancesca.it

2° PREMIO: numero 0686
Soggiorno di due notti per due persone presso B&B La Volpe e la Luna (Mioglia, SV)

3° PREMIO: numero 1199
2 Skypass giornalieri presso la stazione sciistica di Colere (Colere Ski Area 2020) + noleggio dell’attrezzatura completa (sci da discesa o snowboard) per due persone

4° PREMIO: numero 0092
Buono sconto di 200 euro per la realizzazione di un sito internet da parte di http://www.diegochierichetti.com

5° PREMIO: numero 0158 (Arturo)
Ciondolo Breil

6° PREMIO: numero 0159
Soggiorno di una notte in camera doppia con colazione per 2 persone presso La Torretta Affittacamere (Zanica, BG)

7° PREMIO: numero 0724 (Giorgio)
Partecipazione ad un corso di danze popolari del Sud Italia di Arci Metromondo

8° PREMIO: numero 0814
Macchina per caffè Ariete “you and me”

9° PREMIO: numero 0738
6 bottiglie di vino prodotte e offerte da cantina Renato Buganza, di cui 3 bottiglie Roero Arneis DOCG 2011 Dal trifula (medaglia d’Argento concorso internazionale AWC – Vienna) e 3 bottiglie Nebbiolo d’Alba DOC 2008 Gerbole (2 stelle Veronelli)

10° PREMIO: numero 0385
6 bottiglie di vino rosso, prodotte e offerte da Azienda Agricola Signorelli + Torrone spagnolo di mandorla e miele

11° PREMIO: numero 0715
Partecipazione ad un evento o attività formativa di Casa per la Pace Milano

12°- 13° PREMIO: numeri 0077 (Francesca) e numero 0438 (Stefania)
Prodotti alimentari assortiti, offerti da Arcipelago Siqillyah (www.siqillyah.it)

14° PREMIO: numero 0881
Collier di pietre semidure

15° PREMIO: numero 0674 (Tiziana)
3 bottiglie di olio extra vergine di oliva IGP Toscano e Biologico (0,75L), prodotte e offerte da Azienda Agricola Macchi Cassia – http://www.aziendaagricolamacchicassia.com + enciclopedia della cucina

16° PREMIO: numero 0476 (Elisa)
Seduta a domicilio di ceretta orientale con caramello

17° – 18° PREMIO: numero 0498 e numero 1041
Confezione da 3 bottiglie di birra (0,33L), prodotte e offerte da Birrificio Lambrate e t-shirt del Birrificio – http://www.birrificiolambrate.com

19° – 20° PREMIO: numero 0179 (Michele) e numero 0902
Libro Gerusalemme contesa. Dimensioni urbane di un conflitto di Francesco Chiodelli (Carocci, 2012)

21° – 25° PREMIO: numeri 0085, 0819, 0096, 0630, 0904
Bis di libri di Piergiorgio Mora: Il Gallo di San Pietro e Storie di e in Sant’Angelo

26° – 27° PREMIO: numeri 0341 e 1196
Collier di artigianato con materiale di riciclo

28° – 29° PREMIO: numeri 0497 e 0950
Buono consumazione da 30 euro, presso Circolo Arci Colognola (via Rampinelli, 10 – Bergamo)

30° PREMIO: numero 0391
Olio secco vegetale Ribes Rosso + sapone extra dolce al ribes rosso I provenzali

Per la riscossione dei premi, contattare Alice: viaggio2013@casaperlapacemilano.it

Per il quarto anno consecutivo Handala Project Bergamo e Casa per la Pace Milano organizzano un viaggio di conoscenza in Palestina e Israele

TERMINE ISCRIZIONE 25 APRILE 2013. POSTI DISPONIBILI: 25 (per giovani dai 20 ai 40 anni).

L’obiettivo del viaggio è quello di permettere ai partecipanti di vedere con i propri occhi gli esiti del confitto e di capirne le cause, senza mediazioni ed in autonomia, in modo da poter divenire testimoni una volta tornati in Italia.

Sono previsti ncontri con associazioni e attivisti per i diritti umani. Il viaggio è pensato prevalentemente per giovani tra i 20 e i 40 anni. I posti sono limitati (25).
itinerario dettagliato
IL VIAGGIO SI DIVIDE IN TRE PARTI

PRIMA PARTE
La prima parte (5 giorni) è dedicata prevalentemente a Gerusalemme e comprende la visita dettagliata della città (città vecchia, quartieri arabi a Gerusalemme Est, colonie, Muro, Gerusalemme Ovest, museo dell’olocausto…). E’ prevista anche una visita di un giorno a Jaffa (Tel Aviv). Alloggio in un ostello della città vecchia.

SECONDA PARTE
La seconda parte (5 giorni) è dedicata alla zona settentrionale dei Territori Palestinesi. Alloggio in un appartamento nel centro di Nablus. Sono previste visite a Nablus, Tulkarem, Jenin e Ramallah.

TERZA PARTE
La terza parte (4 giorni) è dedicata alla zona meridionale dei Territori Palestinesi. Alloggio in un centro culturale nel campo profughi di Deheishe (Betlemme). Sono previste visite a Betlemme, Hebron, Beit Jalla, i campi profughi attorto a Betlemme.

FORMAZIONE PRE-VIAGGIO
La partecipazione al viaggio prevede la frequenza obbligatoria di un weekend di formazione pre-partenza (nel periodo giugno-luglio).

PER INFO E PRENOTAZIONI

Alice: viaggio2013@casaperlapacemilano.it  339.1681493

Francesco: skekko1@libero.it 3289528130

 

Da sei anni Gaza vive in una situazione di isolamento, stretta dal blocco terrestre e navale, da parte di Israele.
La popolazione della striscia è costretta a vivere in questa grande prigione dove periodicamente cibo, benzina, energia scarseggiano e la disoccupazione è la più alta del mondo.Quasi due milioni di persone vivono nella disperazione, dimenticate dalla comunità internazionale, sotto gli attacchi aerei di Israele.

Crediamo che il lancio di razzi da parte dei gruppi armati palestinesi sia la diretta conseguenza di questa situazione e non vogliamo cadere nell’ipocrisia (comune alla quasi totalità dei media italiani) di compararlo alla potenza della macchina bellica Israeliana, che sta infliggendo una punizione collettiva uccidendo decine di persone e terrorizzandone altre migliaia: da mercoledì 14 novembre centinaia e centinaia di bombe e esplosioni costellano quella sottile striscia di terra e colpendo indiscriminatamente la popolazione civile e facendo più di 100 morti, in piena continuità con le continue prepotenze dell’arrogante politica israeliana.

Il popolo palestinese chiede giustizia: giustizia è dare loro una terra senza occupazione militare e blocco economico. Esprimiamo solidarietà alla popolazione di Gaza, a tutti i palestinesi che lottano contro l’occupazione e a quei movimenti e ai singoli cittadini israeliani che con determinazione continuano a combattere contro la politica di guerra del proprio governo.

Stop bombing Gaza!
Pace, terra e libertà per il popolo palestinese!

ORE  21:00

VEDERE PER CAPIRE / Report viaggio in Palestina di Handala Project

Da tre anni il collettivo Handala Project di Bergamo organizza viaggi di conoscenza in Palestina per giovani dai 18 ai 35 anni.

Vedere per capire. Vedere, conoscere, ascoltare, convivere con una realtà che da casa nostra può risultare distorta. Un viaggio di incontri con associazioni, movimenti e singoli palestinesi che restituiscono uno spaccato della vita sotto l’occupazione israeliana.

Una chiaccherata con alcuni partecipanti del viaggio estivo svolto ad agosto 2012 che racconteranno la loro esperienza e la loro visione di questa terra; un’occasione anche per discutere di Palestina alla luce degli eventi in corso nell’area: la primavera araba; le recenti elezioni amministrative in Cisgiordania; il neonato movimento contro il carovita nei territori occupati.

Ne parleremo tra gli altri anche con Shadia e Sprea che ci porteranno le proprie esperienze dirette.

ORE  22.30

Ritorna puntuale l’appuntamento mensile al Pacì Paciana con Kind of Bass e Bonnot!

Dopo Inoki e Mc Toyo è il turno del giovane talento del reggae nostrano: Junior Sprea! A un anno dal primo lavoro discografico, “Voce” torna a calcare il palco del Pacì Paciana con nuove tunes tutte da ballare!

Con loro sul palco direttamente da Londra la voce di Shadia Mansour aka the first lady of Arabic hip hop, artista e attivista palestinese “scoperta” nientemeno che da Chuck D e che vanta collaborazioni con artisti del calibro internazionale come M1.Bonnot non ha bisogno di presentazioni! Dj e produttore di Assalti Frontali, nonchè compositore e musicista versatile tanto nella musica urban/underground quanto nel jazz e nella classica contemporanea, è pronto a deliziare i vostri palati fini con un dj set infuocato e sonorità meticce, tra break, electro, dubstep e drum’n’bass!

ingresso 3 euro

Jenin dieci anni dopo la battaglia

Pubblicato: agosto 27, 2012 in Viaggio 2012

Prendiamo un bus per raggiungere Jenin. Il nome della città ha qualcosa di mitico  e terribile per la battaglia che si è consumata negli stretti vicoli del  Campo profughi e mi  viene in mente tutte le volte che al telegiornale sentivo ripetere quel nome, probabilmente avevo la forchetta in mano e cercando di essere un buon cittadino del mondo cercavo di memorizzare quei luoghi .  Jenin era un tappa dell’infinita guerra mediorientale, lontano e difficile da immaginare. Ora ci sto arrivando con un taxi collettivo e il mio pensiero è concentrato sul check point: a volte scannerizzano i passaporti che ti rendono difficile un rientro in Israele.  Le domande alla dogana diventano insistenti e sospettose. “Perché ti trovavi in territorio palestinese? Conosci qualcuno li… “

 

Scendiamo dal bus e veniamo accolti e la parola non è usata a caso, i palestinesi  delle associazioni ci accolgono sempre con un’attenzione e  una piacevolezza  speciale .  Nei corridoi una mostra fotografica, appesi al soffitto lunghe file di bandierine palestinesi e foto di martiri. La sala ha una sua eleganza mediorientale , drappi dorati, quadri alle pareti, ad accoglierci tre uomini palestinesi seduti  sul fondo e tre donne, che prendono posto vicino a noi.  Il ragazzo che ci farà da guida  in lingua inglese ci da il benvenuto a nome del popolo palestinese, poi compare  una donna che ci chiede, attenta e interessata, se parliamo francese.  Ci spiega che le donne sono diventate la forza del campo. Dopo la battaglia nessun uomo poteva più lavorare ed è toccato a loro dare un po’ di speranza al campo. Una ragazza italiana mi ha detto che questa donna col suo sguardo fiero e il suo francese fluente le faceva pensare alla cultura vera che sa creare opportunità alle persone.

Parte un filmato che racconta per immagini l’arrivo dei carri  armati, la distruzione che lasciano alle spalle,  vecchi, bambini , famiglie intere sedute sulle macerie delle proprie case con i soldati a pochi passi. La nostra guida ci chiede se vogliamo proseguire, le immagini da questo punto diventerebbero scioccanti, la guida  da per scontato che non vogliamo e al nostro si, riparte il filmato dall’inizio e poi per altri errori tecnici ancora una volta, e dopo una lunga attesa arrivano le immagini:  corpi nudi lacerati da ordigni che esplodono dall’interno e rendo i corpi irriconoscibili. Nella guerra l’umiliazione è un’arma potente, ai martiri non importava di morire, le loro foto che vediamo appiccicate sui muri delle città se le erano fatte da vivi, perché a tutti poteva capitare di diventare martiri. Immaginate una città dove tutti hanno una fotografia pronta per il loro epitaffio funebre.

Ma cosa era successo a Jenin? Nel 2002 il governo di Sharon  accusa la città di essere un covo di terroristi, la città viene accerchiata  e attaccata da tutti i lati, l’esercito israeliano vuole concentrare tutti i combattenti palestinesi  in un unico luogo:  il campo profughi di Jenin.  In 1 Kmq sono concentrate 33 000 persone, le vie sono strettissime, la battaglia sarà durissima.   Le case vengono rase al suolo dai buldozer per fare passare l’esercito e togliere rifugio ai partigiani palestinesi , in poche ore 1400 case vengono distrutte, una zona del campo prende il nome di area zero, 1 persona su 3  rimane senza dimora, 1000 soldati israeliani fanno tabula rasa.  Gli abitanti che ancora oggi continuano a ricostruire il campo hanno deciso di ricostruire tenendo le strade più larghe; se ci fosse un nuovo attacco i carri armati potrebbero passare sotto i loro balconi senza distruggerli. Il consiglio di sicurezza dell’ ONU chiederà  di fermare l’attacco, ma solo dopo 12 giorni  di combattimento.

 

Immaginate una scuola di teatro in un campo profughi. Una sala nera  con una visibilità perfetta e una ragazza giovane che ci accoglie e inizia a parlare, illuminata con un occhio di bue che disegna un cerchio perfetto intorno alla sua immagine. Ci racconta delle attività del Freedom Theater, una scuola professionale di 3 anni con corsi di  scrittura creativa, fotografia e regia cinematografica ad ottimi livelli. La scuola non riceve fondi pubblici e accoglie  5000 persone all’anno dalla Palestina e da tutto il mondo. La scuola dura tre anni, una vera scuola di teatro a pochi passi da Area Zero del campo profughi. Non sembra un miracolo?. Nell’aprile 2011 Juliano, fondatore del gruppo teatrale è stato ammazzato, da chi non si riesce a capire. Lo staff e i membri del teatro  hanno dovuto superare un doppio shock; oltre alla perdita dell’ amico e insegnante e all’angoscia di non sapere chi l’abbia ucciso e perché, a pochi mesi di distanza molti di loro sono stati  perquisiti , picchiati e trattenuti dagli israeliani. Il loro sforzo in questi mesi è stato di tenere in vita questo angolo di speranza.

Inizia un documentario sul centro teatrale; ecco le parole di Suzan “ La rivoluzione non  è solo con le pistole: qui noi possiamo combattere con la telecamera, qui posso esprimere le mie idee, pensieri, sogni nella vita senza nessuna limitazione. Sono abituata ad avere problemi con la mia società perché sono una ragazza, perché non è automatico che io possa uscire di casa e vada a lavorare. Prima di venire al Freedom Theater mi sentivo limitata, ora sento di avere più  libertà, posso fare quello che mi piace qui, non sono sola, ci sono molte persone che mi aiutano e mi supportano, mi sento parte di una comunità.” Mi colpiscono molto le parole di una ragazzo di dodici anni che racconta “Prima di venire qui pensavo che l’unica cosa che potevo fare nel mio futuro era diventare martire. Oggi so che posso diventare un attore,  se facciamo vedere agli israeliani che siamo capace di fare bene teatro, sarà per loro una vera sconfitta”. Quando in Italia ci chiediamo il senso della produzione culturale qui possiamo trovare una risposta molta concreta; il teatro ha dato una prospettiva diversa a questi ragazzi che non riuscivano ad immaginarsi un futuro.

Su un autobus alla volta di Tulkarem, un’oretta di strada verso il muro della vergogna. Ad aspettarci c’è Fayez, coordinatore del comitato agricolo locale, il quale ci mostrerà alcuni dei disastri che questo muro ha provocato.

Da una collina nel villaggio di Pharaon ci fa osservare il muro da lontano, ci fa notare in particolare il punto in cui è stato costruito per proteggere una proprietà agricola occupata da israeliani. In altri punti il muro prosegue solo con reti improvvisate, tanto il messaggio è chiaro: provate a superare la barriera, vediamo cosa succede. A tal proposito ci racconta la storia di una bambina, la quale pensando innocentemente di andare ad accogliere il padre appena uscito dal carcere dall’altra parte del muro, si trova  con un’amica a due passi da esso. Una voce altisonante dice loro di andarsene, insiste. Le due si spaventano, scappano, dalla torretta di controllo si spara: una bambina rimane immobile, non per scelta ma per cause di forza maggiore. Vedere la sua amichetta esanime a terra, circondata dal suo sangue non le fa reggere lo shock. Le gambe si fermano, le capacità cerebrali non funzionano più correttamente. Niente di più umano, in un contesto in cui di umano sembra esserci poco o nulla. Non c’è umanità nei racconti di Fayez sull’abbattimento delle case nell’area del muro da parte dei soldati israeliani. Un’infinità di vita all’interno di una casa, un’infinità di amore nella vita di una famiglia. 5 minuti per abbattere tutto.

Fayez ci porta a vedere le diverse zone colonizzate da israeliani nei dintorni di Tulkarem, ci fa notare i blocchi di cemento utilizzati nelle strade di collegamento alle colonie. Mentre ci sta parlando di questo accanto a noi passa un taxi, il tassista scambia due chiacchiere con lui. Si stanno stupendo del fatto che oggi le strade siano aperte, fino a poco tempo fa erano sempre chiuse. Questo comporta un evidente impedimento agli abitanti della zona di Tulkarem, i quali per raggiungere la città e i villaggi devono allungare di molto la strada.

Da qui andiamo direttamente sotto il muro, vediamo da molto vicino la “tabula rasa” che questo muro ha lasciato. Macerie ovunque, e dove mancano le macerie soltanto una spianata innaturale. Fayez ci fa vedere le foto di com’era quel paesaggio prima della costruzione del muro: quella era la zona del mercato, viva e vitale come ogni mercato arabo che si rispetti. 202 negozi abbattuti, oltre naturalmente alle case circostanti.

A poche centinaia di metri una zona in cui le case sono in parte rimaste, magari abbattute a metà. Dopo il danno la beffa, mi viene da dire. Queste case sono quasi attaccate al muro, Fayez ci fa notare come le potentissime luci di controllo siano sparate contro le finestre. Allo stesso tempo un altro spiraglio di umanità: gli abitanti delle case hanno piantato fiori proprio a ridosso del muro, un raggio verde in un mare di grigio. Ci racconta poi delle immense difficoltà che bisogna affrontare per superare il muro sia per questioni lavorative, che di salute, che per vedere i propri familiari. Esplodono emozioni, sono infiniti gli spunti che in questo viaggio ci vengono dati per aprire la nostra mente. Ogni tanto mi si bagnano gli occhi, spesso in momenti in cui c’è poco da piangere, magari mentre cammino insieme al gruppo per le strade delle varie città e penso alla giornata. Poco importa, quell’unica lacrima vale mille delle lacrime che non sono riuscito a piangere durante i nostri incontri e le nostre visite.

Da qui Fayez ci porta davanti ad una fabbrica chimica. Tutto apparentemente normale, senonchè quella fabbrica (di proprietà israeliana) è stata costruita in suolo israeliano e spostata a ridosso della parte est del muro in seguito alle innumerevoli proteste degli abitanti adiacenti alla fabbrica. Il vento soffia sempre da ovest verso est, invadendo il suolo palestinese con le polveri tossiche e inquinanti prodotte. Gli unici 40 giorni all’anno in cui il vento soffia verso il suolo israeliano, la fabbrica chiude.

Chiudiamo la tappa a Tulkarem con un invito a pranzo a casa di Fayez, il quale ci fa conoscere la sua splendida famiglia e ci fa trovare ottimo cibo preparato dalle mani della sua splendida moglie, che lui riempie teneramente di complimenti. Fayez è stato militante del Partito Comunista Palestinese, è stato in carcere diverse volte a causa della sua lotta politica e ci dice che senza di lei la sua famiglia e le sue proprietà agricole non avrebbero avuto modo di continuare a esistere: “I am a strong man, but my wife is stronger than me”. I suoi figli più grandi studiano in università, lui è molto orgoglioso di questo e a parlarne quasi si commuove. Mentre alla fine del pranzo mangiamo la frutta, pensiamo a quelle piccole mele coltivate nei suoi campi, raccolte da lui, e ci si bagnano ancora gli occhi pensando a quanto ha dovuto soffrire a causa del muro che è stato fatto passare esattamente in mezzo a questi campi, a causa dell’ennesimo sfoggio gratuito di forza della politica israeliana.

Torniamo a Nablus, raccogliendo i pensieri della giornata e pronti ad accogliere tutte le nuove sensazioni che questo viaggio ci darà.

Ultimo giorno a Gerusalemme: ci dispiace lasciare questa città dalle vie affollate e dalle grandi contraddizioni. Per l’ultima volta in questo viaggio percorriamo le strade della città vecchia, tra i bancali di caramelle gommose e i vestiti multicolori appesi. Nelle poche ore libere, ci dividiamo: chi compra un souvenir, chi saluta la città visitando il Cenacolo, il muro del pianto, o cercando di accedere alla spianata delle moschee, oggi chiusa.

Alle 11.30, nella struttura dell’Alternative Information Centre incontriamo Ruth Edmonds di Anarchist against the Wall. Ruth ci racconta delle manifestazioni contro l’occupazione che ogni venerdì si tengono nei villaggi intorno a Betlemme. Una vita di lotta, la sua, contro l’ingiustizia che ogni giorno attanaglia questa terra. Una scelta che l’ha costretta a tagliare i ponti con parte della sua famiglia e con alcuni amici.

Dedicare alla lotta per i diritti umani la propria vita comporta l’essere pronti a pagarne le conseguenze.

Subito dopo incontriamo Michele Giorgio, giornalista del Manifesto da anni in Israele. Ci racconta il suo punto di vista sull’occupazione e sullo stato dell’informazione in Israele in Palestina: i quotidiani internazionali stessi sono vincolati nello svolgimento del loro lavoro dalla politica di Israele, che ha il monopolio del sistema informativo.

Si può dire, ma non troppo. La sofferenza del popolo palestinese scompare magicamente dalle pagine dei giornali, occultata come le ingiustizie perpetrate quotidianamente.

Dopo l’incontro, zaini in spalla, partiamo alla volta di Nablus. Con 4 taxi collettivi, e nonostante la guida spericolata dei taxisti, arriviamo alla meta.

“Welcome to Nablus, welcome to Palestine” ci gridano i bambini per la strada. Un saluto meraviglioso, che ci fa sentire bene in questo luogo tanto lontano e differente dal nostro quotidiano.

Gli sguardi diffidenti e incuriositi si trasformano in sorrisi. Ecco il regalo più bello che ci fa ad ogni angolo della strada la Palestina al nostro arrivo.

Arrivati all’ostello, abbiamo solo pochi minuti per prepararci, prima di uscire per la cena. Il pic-nic nel parco si trasforma in una scalata vera e propria sulla roccia per raggiungere la cima della collina. Un po’ di fatica e paura, che viene ripagata dal panorama mozzafiato che ci accoglie. Entro le 11 rientriamo, la bellezza viene spezzata dalla realtà. Qui c’è il coprifuoco, è possibile che ci siano incursioni israeliane.

Buonanotte, Palestina, alla tua bellezza, alle tue contraddizioni, ai bambini pieni di vita e di speranza che percorrono le tue strade.

L’inferno a Qalandya

Pubblicato: agosto 24, 2012 in Viaggio 2012

Ore 17. Check point di Qalandya. Salutiamo Ramallah alla volta di Gerusalemme. Sul muro dell’apartheid l’immagine di Marwan  Barghouti  ci ricorda che anche un muro, come ogni barriera, può incitare alla resistenza e rivendicare il diritto alla libertà. 

Il gruppo si ferma, scatta foto di rito a quel muro, forse senza cogliere fino in fondo il suo tragico significato. Basterà incamminarsi verso il check point che separa la  West Bank  dal territorio israeliano per urtare contro la dura realtà. Pochi metri e la retorica della resistenza sembra lontana anni luce.

Di fronte a noi un capannone accoglie centinaia di palestinesi, e noi con loro. In questi giorni i musulmani festeggiano l’Aid, la chiusura del Ramadan e molti palestinesi della West Bank tentano di recarsi a Gerusalemme per pregare nella moschea di  Al Aqsa. Ad alcuni il permesso viene negato dagli israeliani solo perché giovani al di sotto dei 40 anni ( e quindi considerati potenziali terroristi);  ad altri invece non viene fornita alcuna spiegazione del diniego. 

Sotto il tetto rovente del capannone iniziamo a separarci e a distribuirci in file ordinate.  L’attesa è lunga. Alle 18 iniziamo a muoverci, entriamo in un corridoio stretto le cui pareti sono costituite da sbarre spesse come quelle di una prigione. Una rete metallica sovrasta le nostre teste impedendoci di compiere qualsiasi movimento. Impossibile alzare le braccia. Impossibile muoversi senza urtare il corpo di un altro. Siamo ingabbiati. Come carne da macello,  come uomini diretti al patibolo.  Ci manca l’aria. Alcuni di noi soffrono di claustrofobia e si affiancano agli accompagnatori per essere supportati in caso di necessità.  Ci guardiamo attoniti, incapaci di verbalizzare le nostre emozioni. La parola, così circoscritta e definita, ha dei limiti che non riesce a valicare per  restituire quel misto di rabbia, angoscia e vergogna che proviamo.

Sì, vergogna.  Per il colore del nostro passaporto che ci consente un’illimitata libertà di movimento. Vergogna per esserci avvicinati a questo viaggio con la presunzione di sapere. Vergogna infine per il privilegio di poter scegliere  quando e quante volte trovarsi di fronte all’arrogante disprezzo di un ventenne israeliano travestito da soldato. 

Rimaniamo immobili, chiusi nel nostro silenzio per più di un’ora. Intorno a noi solo il rumore della porta girevole (anch’essa completamente avvolta da sbarre) che ogni tanto si muove per far passare qualche decina di persone. Il senso di claustrofobia aumenta. La desolazione e lo squallore di questo non luogo sembrano creati ad arte per alimentare l’incomunicabilità. Solo teste basse e corpi ammassati. Siamo circondati da un’umanità disperata che si svela a noi come un’epifania. Con rassegnazione la gente si appoggia  alle sbarre, con braccia che urlano libertà, rispetto per la dignità umana. Ma sono urla silenziose, che sprofondano in un silenzio assordante cui solo l’umiltà e la dignità di quei volti restituisce la voce. 

Stupisce vedere la pazienza con cui questo straordinario popolo affronta ogni tipo di vessazione. Non uno sguardo carico di rabbia o di odio. Solo una profonda fierezza, venata dall’amarezza di non essere considerati “uomini”.  E’ questa la democrazia di Israele?

La mattina, arrivati a Ramallah, un sms della compagnia telefonica palestinese Jawwal ci accoglieva così: Smell  the jasmine and taste the olives. Welcome to Palestine.

E davvero questa terra odora di gelsomini e ulivi.  Ma qui, ora, sentiamo solo il puzzo della complicità di una comunità internazionale che consente ad Israele di reiterare il crimine dell’apartheid. 

Ormai sono le 19. L’inferno è ancora tra noi. In quale girone ci troviamo?

Finalmente qualcosa si muove.  Alcuni di noi riescono ad uscire dal tunnel infernale mentre gli altri restano ancora ingabbiati dentro. Ad uno ad uno ci disponiamo nuovamente in file ordinate per superare l’ennesima barriera che ci porterà finalmente davanti al ragazzino israeliano travestito da soldato.  Sopra le nostre teste un cartello esorta a tenere pulito quello spazio.  Con amarezza e stupore ci chiediamo quale interesse possa esserci a mantenere decoroso un posto che non ha rispetto dell’essere umano.

Iniziamo a spazientirci. Un uomo ci dice di avere pazienza  e tolleranza, i soldati potrebbero innervosirsi.  Finalmente la porta si muove : riusciamo a superare l’ultimo ostacolo e ad incontrare l’arrogante indifferenza del soldatino israeliano. Un cenno di testa e siamo fuori.  Via  dall’inferno. Via da quell’odore di umana putrefazione. Via da quel luogo in cui la dignità umana è dimenticata.

Dall’altro lato del check point una luce accecante ci apre brutalmente alla vista di Gerusalemme. E’ un chiarore crepuscolare ma due ore di segregazione sono uno schiaffo a mano aperta in pieno viso.

Ancora attoniti sediamo per terra avvolti nelle nostre pashmine, con in braccio i nostri zaini, nell’attesa che i nostri compagni, ancora dentro a quell’inferno, possano tornare a riveder le stelle.

Iniziamo a guardare Gerusalemme con nuovi occhi. Il check point di Qualandya, come un rito di purificazione, ci restituisce a nuova vita. Ora, davvero, ogni cosa è illuminata. Tutto è chiaro, ha forma e sostanza.

Domani un’altra tappa ci aspetta, inshallah. Continuiamo il nostro viaggio con il solito entusiasmo e la curiosità di capire. Ma con una nuova consapevolezza, sicuri che l’inferno sarà ancora tra noi, addolcito dal sorriso dei bambini e dal generoso saluto delle donne che ci danno il benvenuto nella loro terra.

Shukran Falastinya.

Primi passi in Palestina

Pubblicato: agosto 20, 2012 in Viaggio 2012

Il sole tramonta sul  quarto giorno di viaggio. Le nostre teste sono affollate di parole, immagini, colori, informazioni, racconti di vita quotidiana di chi vive sotto l’occupazione e di chi ogni giorno vive per contrastarla. Il programma è intenso, il tempo sembra non bastare mai, e noi siamo assetati di tutto: d’acqua, in primis, con bottiglie da 2 litri che si esauriscono in pochi minuti, passando di bocca in bocca (dopo solo 4 giorni siamo già una sorta di grande famiglia), di esperienze, di conoscenza, di parole.

Ci raccontiamo, confrontiamo e condividiamo istanti, emozioni e falafel. Il tempo per scrivere e pensare in solitudine è poco, ma forse è meglio così: non sarà un monologo, ma un racconto corale. Ma riprendiamo le fila…

Il primo giorno siamo saliti sui tetti, il secondo, alle 9,30 del mattino, scendiamo letteralmente nell’abisso. Il museo dell’Olocausto è stato progettato per dare al visitatore l’impressione di sprofondare verso il male assoluto dello sterminio. Il pavimento inclinato ci accompagna fino alle sale dove sono esposti i documenti sui campi di concentramento. Poi, il pavimento risale, ci porta all’uscita, verso la nostra nuova meta, il campo profughi di Shufat, appena fuori Gerusalemme.

Passato il check-point visitiamo l’associazione “Vento di terra”, che da lavoro a una quarantina di donne del campo. Il quartiere è degradato, ai bordi delle strade regna la spazzatura, sui tetti svettano le cisterne nere dell’acqua, bene raro e prezioso per i palestinesi.

Pensare che il Museo dell’Olocausto è circondato da alberi, innaffiati con un capillare sistema d’irrigazione, e immaginare che a Shufat l’acqua scarseggia, fa dire: “immaginate se questo è un uomo”, e obbliga a chiedersi come sia possibile che il male si perpetui attraverso la mano di chi l’ha così a lungo subito.

Il terzo giorno è la volta del Great Jerusalem Tour. La nostra guida Yahaniv, del Green Olive Tours, ci accompagna in un giro in autobus attorno a Gerusalemme. Sotto il cielo azzurro e il sole a picco si stagliano gli insediamenti dei coloni. Da lontano sembrano tante casette giocattolo, tutte simili, distribuite  a macchia di leopardo sulla roccia e i campi brulli. Ma i giochi qui non c’entrano: si tratta di un piano ben preciso, una volontà ferrea di prendere la terra e farla propria. La legge del più forte qui sembra la regola, ed è facile essere forti quando si ha un fucile carico tra le mani, come i soldati che a decine incontriamo per la strada.

Il muro e il filo spinato scorrono davanti ai nostri occhi dai finestrini. La libertà è un privilegio, e non un diritto, tra gli ulivi e le rocce di questa terra riarsa.

Il quarto giorno lo scenario cambia totalmente. Davanti a noi il mare di Tel Aviv e il palazzo dell’Ambasciata Americana, il “grande burattinaio” degli affari israeliani. Seduti sul tetto,  guardando il mare e i palazzi di cemento, parliamo con Ronnie Barkan di Anarchists against the wall e Boycott within.

Nella moderna Tel Aviv, così liberale ad un occhio distratto, non s’innalza il canto del muezzin, qui i mussulmani non sono graditi. Lo stesso vale per Jaffa, dove la numerosa comunità mussulmana è minacciata quotidianamente dagli sgomberi e dall’abbattimento delle abitazioni, come ci spiega Judith del Popular Cometee Struggle.

Torniamo a Gerusalemme, dove le strade sono deserte: il Ramadan è finito, il riposo è necessario. Domani ci aspetta la visita a Ramallah: chissà se il cielo, visto dalle sbarre grigie del check-point avrà un colore diverso.

dai tetti di Gerusalemme

Pubblicato: agosto 16, 2012 in Viaggio 2012

Il nostro incontro con la “Santa” inizia dai tetti..un itinerario che può sembrare alternativo ma che in questa città non lo è….(o forse).

Non sono state solo le vedute sceniche che hanno attirato la nostra attenzione ma gli elementi che ci hanno dato le chiavi per comprenderne l’occupazione.

Sui tetti si possono scorgere le bandiere israeliane ad indicare la presenza dei coloni, enorme quella posta sulla casa occupata da Sharon in Al-Wad road. Si può percepire l’assenza di vita delle giornate delle sentinelle armate, guardie private a protezione di una minoranza che abita nella parte alta di un quartiere nelle cui vie scorre l’anima del suq. Dai tetti i segni dell’occupazione si rivelano nel controllo della gestione esasperata delle risorse, in questo caso idriche, dove le case arabe sono costrette a mettere cisterne.

La giornata termina sul nostro tetto, quello dell’ostello dove un cane di altre latitudini cerca un poco d’acqua per digerire l’ amara storia di Suleman, attivista di Combacts for peace, (www.cfpeace.com)incarcerato per dieci anni, all’età di 14, durante la seconda intifada.